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a cura di Eide Spedicato Iengo
La formulazione del concetto di gusto, dalle prime enunciazioni teoriche (già nella speculazione classica greca) (1) fino alla sua definizione statutaria nel Settecento, sottintende, comunque, un'eredità metafisica. sia che esso venga definito come un "sapere che non sa ma gode", o come un "piacere che conosce" (è di Montesquieu la definizione di gusto quale "applicazione pronta e squisita di regole che neppur si conoscono) (2), sia che venga inteso come un "sapere altro" dalla conoscenza intellettuale (3) (la cognitio sensitiva di Baumgarten), è evidente la contrapposizione fra la prospettiva dell'estetica tradizionale (che si fonda sull'antinomia fra il sensibile e l'intellegibile, fra la logica e il piacere) e lo statuto della scienza tout court. Si tratta di una contrapposizione che assume toni particolarmente netti quando l'oggetto d'indagine è il "bello urbano", e per due principali ordini di motivi. In primo luogo perchè, come si accennava, il gusto fissa "l'ideale di un sapere che si presenta come la conoscenza più piena nell'istante stesso in cui se ne sottolinea l'impossibilità" (4) (e perciò rinvia ad un modello astratto e inverificabile di conoscenza), e in secondo luogo, perchè l'impostazione prevalente dello studio del fenomeno urbano ha trascurato che "la città è [...] espressione degli interessi di sopravvivenza e di preminenza di gruppi sociali in termini strutturali, cioè dei rapporti materiali di vita, e delle tensioni collegate con il mondo degli interessi". (5) Quest'ultima affermazione, che postula una ridefinizione del campo teorico dell'urbano, richiama specificatamente il peso della dimensione storica e culturale, fino a ieri elisa, nello studio e nell'osservazione della città. Ciò non equivale a negare o a tacere la presenza di tipologie o di accurate descrizioni della città e del "bello urbano", come vedremo; vuole solo segnalare la lontananza dei modelli ipotetici sul gusto come facoltà del sentimento, dallo schema esplicativo che connette e specifica tra loro i diversi, parziali momenti della struttura urbana. Va da sè che lo schema che privilegia l'approccio dialettico e storico nel quadro della conoscenza della città, riconduce, di fatto, il fenomeno urbano a una individualità collettiva, e ad un prodotto sociale. Questa prospettiva, beninteso, non sclerotizza, nello specifico, la nozione di gusto: al contrario, ne storicizza e diversifica la lettura attraverso il superamento di parametri rigidamente ontologici e di sistemi chiusi. E infatti, sulla base dei postulati suggeriti da tale prospettiva, è possibile sia identificare l'origine ideologica della nozione di gusto, sia isolate le categorie canoniche e, talvolta, tautologiche della interpretazione estetica tradizionale, sia ancora saggiarne le conseguenze sul piano del pensiero sociale. Va rammentato, infatti, che la categoria del gusto è solo apparentemente periferica rispetto alla centralità di altri indicatori del fenomeno urbano. Tutto sta ad intendersi sul significato che a questo concetti si attribuisce. Ovviamente, se il termine gusto rinvia ad un sistema sociale ed economico, e ad un prodotto di cultura, allora esso supera le descrizioni solo identificative del bello, e risponde ad interrogativi più vasti. Obbiettivo, di questo lavoro è, precisamente, una prima formulazione d'insieme del discorso letterario sul gusto urbano nel periodo illuministico-romantico. La prospettiva non è, volutamente, nè letterale (si propongono solo spunti e frammenti), nè sintomale (non si cercano contenuti latenti nei vari passi scelti); è solo prospettiva delle varie tematiche estetiche sulla città. Le informazioni riguardano la scena urbana europea del Sette-Ottocento, e per motivi che non presumono notazioni. (1) A Platone si deve la teorizzazione della separatezza, ma anche della relazione, fre il dettato della scienza e quello del piacere. Alla sapienza che non può essere tradotta in immagini, si contrappone la bellezza che, invece, è la "più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte le essenze" (Fedro 250 d). Tuttavia, precisamente questa separatezza si ricompone nel nesso (che è insieme unità e differenza) fra verità e bellezza, e nella definizione della bellezza come visibilità dell'invisibile. Ma per maggiori esplicitazioni sull'argomento, si legga, per esempio, la voce "gusto", curata da Giorgio Agamben, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1979, pp.1019-1038.(2) C. MONTESQUIEU, Essai sur le goût dans les choses de la nature et de l'art, p. 1018(3) Sui giudizi del gusto, Kant, per esempio, così si esprime: "...sebbene per se medesimi questi giudizi non contribuiscono per nulla alla conoscenza delle cose, appartengono nondimeno unicamente alla facoltà di conoscere e rivelano un'immediata relazione di questa facoltà col sentimento di piacere o dispiacere, fondata su qualche principio a priori, da non confondersi con ciò che può essere il fondamento della determinazione della facoltà di desiderare, perchè questa ha i suoi principi a priori in concetti della ragione". I Kant, Kritik der Urteilskraft, Lagarde und Friederiche, Berlin und Libau, 1790, trad. it., Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1960, p. 6(4) G. AGAMBEN, op. cit., p.1030. Più chiaramente, il "...sapere, in cui verrebbe a suturarsi la scissione metafisica fra sensibile e intellegibile, è... un sapere che il soggetto propriamente non sa, perchè non ne può dare ragione, un senso mancante o eccessivo, che si situa all'interferenza di conoscenza e piacere..., la cui mancanza o il suo eccesso definiscono però in modo essenziale lo statuto della scienza (intesa come sapere che si sa, di cui si può dar ragione e che può perciò essere appreso e trasmesso) e lo statuto del piacere (inteso come un avere su cui non si può fondare un sapere). L'oggetto e il fondamento di questo sapere che il soggetto non sa è designato come bellezza, cioè come qualcosa che, secondo la concezione platonica, si dà a vedere ("il bello" è la cosa più apparente), ma di cui non è possibile la scienza, ma solo l'amore...".(5) F. FERRAROTTI, Roma da capitale a periferia, Bari, Laterza, 1974, p.44(6) Usiamo qui il concetto di figurabilità e di leggebilità, che appaiono quali sinonimi, secondo l'accezione di Kevin Lynch. questi termini ineriscono alla "qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un'immagine vigorosa... (La figurabilità) potrebbe (appunto) venir denominata leggibilità o forse visibilità in un significato più ampio, per cui gli oggetti non solo possono essere veduti, ma anche acutamente ed intensamente presentati ai sensi". Cfr. K. LYNCH, L'immagine della città,
trad. it., Padova, Marsilio, 1973, pp.9-10
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