SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Introduzione (I parte)

a cura di Eide Spedicato Iengo

La formulazione del concetto di gusto, dalle prime enunciazioni teoriche (già nella speculazione classica greca) (1) fino alla sua definizione statutaria nel Settecento, sottintende, comunque, un'eredità metafisica. sia che esso venga definito come un "sapere che non sa ma gode", o come un "piacere che conosce" (è di Montesquieu la definizione di gusto quale "applicazione pronta e squisita di regole che neppur si conoscono) (2), sia che venga inteso come un "sapere altro" dalla conoscenza intellettuale (3) (la cognitio sensitiva di Baumgarten), è evidente la contrapposizione fra la prospettiva dell'estetica tradizionale (che si fonda sull'antinomia fra il sensibile e l'intellegibile, fra la logica e il piacere) e lo statuto della scienza tout court. Si tratta di una contrapposizione che assume toni particolarmente netti quando l'oggetto d'indagine è il "bello urbano", e per due principali ordini di motivi. In primo luogo perchè, come si accennava, il gusto fissa "l'ideale di un sapere che si presenta come la conoscenza più piena nell'istante stesso in cui se ne sottolinea l'impossibilità" (4) (e perciò rinvia ad un modello astratto e inverificabile di conoscenza), e in secondo luogo, perchè l'impostazione prevalente dello studio del fenomeno urbano ha trascurato che "la città è [...] espressione degli interessi di sopravvivenza e di preminenza di gruppi sociali in termini strutturali, cioè dei rapporti materiali di vita, e delle tensioni collegate con il mondo degli interessi". (5)

Quest'ultima affermazione, che postula una ridefinizione del campo teorico dell'urbano, richiama specificatamente il peso della dimensione storica e culturale, fino a ieri elisa, nello studio e nell'osservazione della città. Ciò non equivale a negare o a tacere la presenza di tipologie o di accurate descrizioni della città e del "bello urbano", come vedremo; vuole solo segnalare la lontananza dei modelli ipotetici sul gusto come facoltà del sentimento, dallo schema esplicativo che connette e specifica tra loro i diversi, parziali momenti della struttura urbana.

Va da sè che lo schema che privilegia l'approccio dialettico e storico nel quadro della conoscenza della città, riconduce, di fatto, il fenomeno urbano a una individualità collettiva, e ad un prodotto sociale. Questa prospettiva, beninteso, non sclerotizza, nello specifico, la nozione di gusto: al contrario, ne storicizza e diversifica la lettura attraverso il superamento di parametri rigidamente ontologici e di sistemi chiusi. E infatti, sulla base dei postulati suggeriti da tale prospettiva, è possibile sia identificare l'origine ideologica della nozione di gusto, sia isolate le categorie canoniche e, talvolta, tautologiche della interpretazione estetica tradizionale, sia ancora saggiarne le conseguenze sul piano del pensiero sociale. Va rammentato, infatti, che la categoria del gusto è solo apparentemente periferica rispetto alla centralità di altri indicatori del fenomeno urbano. Tutto sta ad intendersi sul significato che a questo concetti si attribuisce. Ovviamente, se il termine gusto rinvia ad un sistema sociale ed economico, e ad un prodotto di cultura, allora esso supera le descrizioni solo identificative del bello, e risponde ad interrogativi più vasti.

Obbiettivo, di questo lavoro è, precisamente, una prima formulazione d'insieme del discorso letterario sul gusto urbano nel periodo illuministico-romantico. La prospettiva non è, volutamente, nè letterale (si propongono solo spunti e frammenti), nè sintomale (non si cercano contenuti latenti nei vari passi scelti); è solo prospettiva delle varie tematiche estetiche sulla città. Le informazioni riguardano la scena urbana europea del Sette-Ottocento, e per motivi che non presumono notazioni.

 

Diciamo subito che nessuno degli autori (esaminati nella loro successione cronologica) figura, per esempio, fra i classici della sociologia urbana, o dell'architettura, o dell'urbanistica. La scelta, intenzionale, è invece caduta su quegli intellettuali che, pur non avendo affrontato specificatamente l'argomento del gusto urbano, contribuiscono, ciononostante, alla costruzione di un modello estetico della città. La caratteristica dei brani proposti è appunto quella di suggerire degli archetipi sul tema. Naturalmente, questi stessi brani, proprio perchè si ancorano a soglie storiche ideologicamente diverse, isolano due contrapposti codici di lettura del gusto, ma entrambi si riassumono in una comune filosofia. Per esempio, nè nel primo, nè nel secondo c'è traccia del nesso gusto-stratificazione sociale, nè compare alcun riferimento alla dialettica tra i rapporti di produzione e l'oggettivazione del bello, nè dall'uno nè dall'altro viene sollevato alcun interrogativo di critica sociale.
 
Eppure, proprio gli intellettuali illuministi e romantici di cui in seguito si riferirà (e che non a caso rappresentano la sensibilità letteraria di punto del Sette-Ottocento) avevano percepito e annotato le novità nella scena urbana, quali prodromi e/o quali effetti della prima industrializzazione. Per esempio, le nuove dimensioni temporali, i nuovi sistemi sociali, l'eterogeneità del pieno urbano. Ma tutte queste allusioni non sono bastate a far superare il vizio "idealistico" della loro nozione di gusto, a livello tanto di scrittura quanto di lettura. In questi intellettuali, cioè, permane la separatezza tra la rappresentazione estetica della città, e la struttura socio-economica della città stessa. Ripropongono, pertanto, la concezione del disegno urbano come un'arte atemporale, anche se, in qualche caso, accettano il criterio della figurabilità e della leggibilità della città secondo il tracciato collettivo, cioè attraverso gli elementi mobili, la gente. (6)
 
Ovviamente, se pretendere da Montesquieu, o da Francesco Algarotti, o dal marchese De Sade la proposizione di tensioni dialettiche e di antagonismi storici, sarebbe metodologicamente impreciso e storicamente erroneo, un qualche superamento del descrittivismo acritico dominante, e non solo a seguito della lezione englesiana, sarebbe stato auspicabile magari in qualcuno degli scrittori dell'Ottocento. Ma non è dato cogliere alcun cenno in questa direzione. Comunque, e pur attraverso questi limiti, resta il fatto che le annotazioni sulla città di questi intellettuali, non sono meno rilevanti, e per almeno due motivi: perchè contribuiscono ad isolare ed identificare gli orientamenti paradigmatici del gusto urbano, e perchè arricchiscono il patrimonio di conoscenza su alcuni aspetti ecologici e distributivi delle città stesse, quali la densità, o gli effetti scenografici o i contesti paesaggistici. Tuttavia, come si diceva, queste descrizioni non preludono ad un'attenzione "sociale" sulle interazioni fra le diverse parti dell'area urbana. (7) Anzi, servono a riaffermare la essenzialità della figurazione, controllata dalle leggi di un gusto educato e rigido, vuoi nella versione di solo testo come nell'Illuminismo, vuoi nella versione anche di contesto come nel Romanticismo.
 
Così, per esempio, nel '700 sono seducenti quelle città che, urbanisticamente, presentano le strade dritte, la regolarità degli edifici, lo spazio dato a piazze, giardini, fontane, la simmetria, il lusso esteriore, l'uso del marmo e dell'oro. Tuttavia, questi elementi della città esemplare settecentesca rinviano non solo ad un preciso statuto estetico, ma, parallelamente, anche ad un codice, che è insieme spaziale e culturale, e cioè alla separatezza, giudicata essenziale della città dal contesto ecologico (in questo caso dalla campagna). Gli stessi bastioni, sembrano concepiti "più come proprie difese militari" (8). Il paesaggio urbano appare, insomma, interamente dominato da canoni geometrizzanti, che espellono da sè qualsiasi traccia di non costruito. Ma se questa operazione tutta intellettualistica esprime un ideale urbano rigorosamente astratto, nel concreto la forma spaziale delle città assume contorni non previsti, che si devono alla comunità urbana nel suo complesso, o più specificamente, agli effetti del momento progressivo della borghesia in ascesa, e alla presenza delle classi popolari. Ciononostante (è quasi superfluo annotarlo) questi osservatori di città non sembrano cogliere il nesso dialettico fra l'espressività dei gruppi urbani e le tipologie urbanistiche ed architettoniche, nè delle nuove antinomie che si sviluppano all'interno della città stessa, nè delle modificazioni dello spazio, intese come modificazioni d'uso prodotte dalla collettività. Ne sono prova alcune emblematiche descrizioni di città: per esempio, quelle di Torino, di Livorno, o di Aix en Provence. Chiariamole. Una notazione ricorrente su Torino concerne la sua modesta dimensione e la sua scarsa densità demografica. Montesquieu, pur sottolineandone i pregi, la definisce, non a caso, "il più bel villaggio del mondo". De Brosses ne nota la "piccolezza", e così pure Giovan Battista Malaspina.
 
Al contrario, Livorno (e sebbene per molti versi rammentati, a questi stessi viaggiatori, Torino per l'eleganza delle forme) se ne differenzia per un particolare: l'elevanta densità demografica e la maggiore differenziazione sociale. Verosimilmente, a Livorno alcuni elementi funzionali (come la presenza del porto) hanno creato le basi per un mercato che ne ridisegna (anche attraverso gli elementi mobili) la figurabilità.

(1) A Platone si deve la teorizzazione della separatezza, ma anche della relazione, fre il dettato della scienza e quello del piacere. Alla sapienza che non può essere tradotta in immagini, si contrappone la bellezza che, invece, è la "più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte le essenze" (Fedro 250 d). Tuttavia, precisamente questa separatezza si ricompone nel nesso (che è insieme unità e differenza) fra verità e bellezza, e nella definizione della bellezza come visibilità dell'invisibile. Ma per maggiori esplicitazioni sull'argomento, si legga, per esempio, la voce "gusto", curata da Giorgio Agamben, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1979, pp.1019-1038.

(2) C. MONTESQUIEU, Essai sur le goût dans les choses de la nature et de l'art, p. 1018

(3) Sui giudizi del gusto, Kant, per esempio, così si esprime: "...sebbene per se medesimi questi giudizi non contribuiscono per nulla alla conoscenza delle cose, appartengono nondimeno unicamente alla facoltà di conoscere e rivelano un'immediata relazione di questa facoltà col sentimento di piacere o dispiacere, fondata su qualche principio a priori, da non confondersi con ciò che può essere il fondamento della determinazione della facoltà di desiderare, perchè questa ha i suoi principi a priori in concetti della ragione". I Kant, Kritik der Urteilskraft, Lagarde und Friederiche, Berlin und Libau, 1790, trad. it., Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1960, p. 6

(4) G. AGAMBEN, op. cit., p.1030. Più chiaramente, il "...sapere, in cui verrebbe a suturarsi la scissione metafisica fra sensibile e intellegibile, è... un sapere che il soggetto propriamente non sa, perchè non ne può dare ragione, un senso mancante o eccessivo, che si situa all'interferenza di conoscenza e piacere..., la cui mancanza o il suo eccesso definiscono però in modo essenziale lo statuto della scienza (intesa come sapere che si sa, di cui si può dar ragione e che può perciò essere appreso e trasmesso) e lo statuto del piacere (inteso come un avere su cui non si può fondare un sapere). L'oggetto e il fondamento di questo sapere che il soggetto non sa è designato come bellezza, cioè come qualcosa che, secondo la concezione platonica, si dà a vedere ("il bello" è la cosa più apparente), ma di cui non è possibile la scienza, ma solo l'amore...".

(5) F. FERRAROTTI, Roma da capitale a periferia, Bari, Laterza, 1974, p.44

(6) Usiamo qui il concetto di figurabilità e di leggebilità, che appaiono quali sinonimi, secondo l'accezione di Kevin Lynch. questi termini ineriscono alla "qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un'immagine vigorosa... (La figurabilità) potrebbe (appunto) venir denominata leggibilità o forse visibilità in un significato più ampio, per cui gli oggetti non solo possono essere veduti, ma anche acutamente ed intensamente presentati ai sensi". Cfr. K. LYNCH, L'immagine della città, trad. it., Padova, Marsilio, 1973, pp.9-10

(7) Si tratta di un'atmosfera che si riprodurrà nella definizione di metodologie socio-urbanistiche che, per sottolineare l'autonomia dei fenomeni urbani (e la validità di una scienza urbana), si dimostreranno altresì incapaci di una visione dialettica d'insieme dei vari aspetti della fenomenologia della città.


Theorèin - Gennaio 2006